Mi permetto di condividere questo straordinario articolo che mi tocca da vicino poiché riflette totalmente il mio pensiero e credo quello di tante persone sensibili al mondo dell’Arte.
Da quando, con sempre maggiore insistenza, alcuni cosiddetti esperti hanno cominciato a
indicarci come «opere d’arte contemporanea» oggetti curiosi, immagini provocatorie,
manufatti stravaganti, gli appassionati più sensibili e, fra loro, un buon numero di saggi
collezionisti, sembrano aver adottato, sconcertati, questi emblematici versi di Eugenio
Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.»
Ovunque, infatti, dilagano ignoranza e cattivo gusto, e in quella che va consolidandosi
come una delle epoche più povere per quanto concerne la creatività emerge,
incontrastata, la totale assenza di spirito critico: è il trionfo del pensiero «omologato»,
avrebbe detto Pasolini, di figurine da avanspettacolo che provano a darsi un tono
ricorrendo a due parole tanto abusate: bellezza e cultura.
Quanto di peggio possa esistere in termini di mostre o eventi espositivi scivola via nel
silenzio e nel disinteresse generali. Peggio: senza che nessuno mostri più la dovuta
indignazione al cospetto di «cose» che offendono città, luoghi, piazze, monumenti; coloro
che, perduta ogni speranza, da tempo hanno deciso di volgere il proprio sguardo altrove.
L’assurdo si celebra ogni giorno: fuori e dentro i musei, con installazioni e performances –
le chiamano così – delle quali è lecito chiedersi la necessità e prim’ancora il senso, chi le
ha volute e cosa si è speso in termini di denaro pubblico; se, a monte, vi sia stata una
qualche valutazione meritocratica o, piuttosto, una nascosta volontà di favorire le logiche
perverse del «sistema dell’arte», sempre più simili, nelle sostanza, a quelle che hanno
prodotto certe obbligazioni subordinate nel mondo della finanza.
E, vinti da un malinconico disincanto, ecco infine molti ritrovarsi in una riflessione,
purtroppo sempre attuale, di Bertolt Brecht: «Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che
tutti gli altri posti erano già occupati.»
APERTIS VERBIS, Giovanni Faccenda (La Nazione)