Provo disgusto per chiunque speculi sui sogni e le illusioni altrui, chi incoraggia – soltanto per accrescere il proprio business personale – costose iniziative di onesti dilettanti – della poesia, della narrativa, della musica e della pittura -, incentivati a pubblicare, suonare o esporre i loro lavori con la promessa di un futuro di successo destinato, invero, a non realizzarsi mai.

Il giro di affari che ruota intorno a simili miraggi, nonostante la crisi diffusa in quasi tutti i settori della nostra economia, non conosce al contrario in questo che qualche lieve, circoscritta flessione: basta dare uno sguardo al calendario delle mostre o all’annuncio di nuove pubblicazioni per constatare come, a dispetto del merito e del talento, sempre più possano appunto i soldi. Tanti soldi.

Un sottobosco di editori e di galleristi senza scrupoli, indegni perfino di essere definiti o considerati tali, agisce ormai consapevole del fatto che, se è sempre più difficile vendere libri o opere d’arte, risulta viceversa assai agevole guadagnare offrendo a pagamento i propri servizi o alcune improvvisate sedi espositive: naturalmente a chi si sente un Leopardi incompreso oppure un Picasso a cui vada stretto l’annoso anonimato. In tempi recenti, un’altra categoria – all’interno della quale sono poi proliferati scaltri approfittatori – è emersa incontrando convinto favore in particolar modo fra coloro che si sentivano da troppo tempo ingiustamente emarginati: sono i cosiddetti «curatori» – di eventi, esibizioni varie, rassegne collettive -, i maghi, per taluni, in grado di trasformare in gloria qualunque indicibile speranza.

Organizzano, si danno un gran daffare e scrivono, costoro, ricorrendo a generosi superlativi, che fanno naturalmente salire il loro costoso onorario, mentre troppi colpevolmente dimenticano che i veri traguardi, nella vita, si raggiungono affrontando lunghi e impervi itinerari e non comode e molto dispendiose scorciatoie.

Giovanni Faccenda (Apertis Verbis, La Nazione, 2017)

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